Il fatto avvenne la notte tra il 14 e il 15 luglio 1944.

Il ricordo dell’evento in un documento recuperato dal Gruppo Archeologico Salingolpe.


«Le ombre calavano rapide a coprire col loro manto questa terra insanguinata e divampante di guerra la sera del 14 luglio del 1944. Ai castellinesi rifugiati nelle cantine e sotto le “Volte”[…] giungeva di tanto in tanto il rombo del cannone ormai vicino. Sul lastricato risuonavano gli scarponi chiodati dei tedeschi in ritirata. Era ormai prossima l’ora della liberazione, l’ora del ritorno alla vita. D’un tratto, nel cuore della notte, un boato profondo fece tremare le case e si diffuse nelle cantine affollate. I castellinesi[…] avevano compresa la dolorosa verità: la mina tedesca che aveva distrutta la porta medioevale, aveva in un sol colpo ferito a morte, lacerato il cuore di Castellina, la sua chiesa. Il mattino soleggiato, infatti, ratificò il sacrificio: della vecchia Chiesa, non bella, ma che racchiudeva i migliori ricordi dei paesani, non era rimasto che un cumulo fumante di macerie».

Così scrive nel dicembre 1946 Vasco Pisani sul Nuovo Corriere, un quotidiano italiano con sede a Firenze pubblicato dal 1945 al 1956, in un articolo che celebrava la riapertura dell’edificio di culto fissata per il 1° gennaio 1947. Il documento è costituito da un ritaglio di giornale conservato nell’archivio della famiglia Bartalini (offertoci da Antonella Bartalini nei Viti) che il Gruppo Archeologico Salingolpe recupera ravvivandone il ricordo, a settant’anni esatti da quella tragica notte in cui la cieca furia della guerra si accanì sui due monumenti più cari al cuore dei castellinesi: la Porta Fiorentina e l’attigua quattrocentesca Chiesa del SS. Salvatore.

Dalle macerie di quest’ultima, grazie anche al generoso e spontaneo sostegno dalla popolazione, con l’impiego delle maestranze della locale ditta Pietro Fanetti e della ditta Armando Petri di Siena, la chiesa fu riedificata in poco più di due anni. La prima pietra fu posta da Mons. Profeti il 31 marzo del 1945.

 

Il Prof. Menotti Lucatelli elaborò il progetto, che subì però radicali modifiche per ciò che concerne gli edifici attigui e la posizione del campanile, ma non nel corpo della chiesa realizzato in stile neoromanico a croce latina, con tre navate divise da archi a tutto sesto sorretti da colonne con capitelli di ordine corinzio. L’esterno è interamente in pietra a vista, il lato destro è costituito da quel tratto delle antiche mura, come risulta evidente dal torrino angolare di nord-ovest, che nell’antico edificio ospitava il campanile, e che, liberato dai manufatti successivi, è forse la più autentica testimonianza di tali fortificazioni.

Relativamente all’attuale campanile, nell’articolo si evince che alla riconsacrazione della chiesa, il 1° gennaio 1947, questo non era stato ancora edificato. In merito, la famiglia castellinese, la quale è interamente socia del nostro sodalizio culturale, ricorda quanto raccontava un congiunto, Alfeo Bartalini (1927 – 1992), all’epoca ventenne, e cioè che durante gli scavi di fondamenta del campanile nella sua collocazione attuale i costruttori scavavano senza riuscire a trovare “il sodo”, ossia una base di roccia sufficiente a sostenerlo; infine decisero di creargli un basamento artificiale utilizzando lo “chassis” di un camion tedesco abbandonato e che evidentemente era ancora nei paraggi.

A testimonianza tangibile della vecchia chiesa sono rimaste le capriate ricollocate a sostenere la copertura della navata centrale, si è fortunatamente salvato lo splendido affresco quattrocentesco di scuola fiorentina raffigurante la Madonna del Latte (opera del Maestro di Signa), restaurato nel settembre scorso proprio su iniziativa del Gruppo Salingolpe e l’Urna con le Reliquie del veneratissimo Patrono San Fausto che il popolo, nei giorni del fronte, tenne con sé nelle cantine di Via delle Volte. È invece andato distrutto il maestoso organo seicentesco ampliato e restaurato dal pievano Cosimo Bianciardi nel 1672, portato a nuova vita nel 1795 e nuovamente restaurato nel 1861 dal pievano Vincenzo Mangani. Il prezioso strumento, eredità di un modesto organo del 1595, era collocato sopra la porta d’ingresso, nella parte più esposta all’esplosione.

Purtroppo si deve ricordare con rammarico che non tutto ciò che fu colpito quella sciagurata notte vide la ricostruzione: per la vetusta Porta Fiorentina, che armoniosamente chiudeva a nord la piazza della Chiesa come una quinta scenica, fu infatti decisa la totale demolizione pur essendo, a opinione di testimoni dell’epoca, ampiamente recuperabile.

Come Gruppo Archeologico è un vero onore poter ringraziare sentitamente la famiglia Bartalini-Viti per aver donato proprio a noi questa preziosissima testimonianza ormai dimenticata. E non è la sola, moltissime persone ci contattano per segnalazioni, pareri ed anche, appunto, per donarci documenti e immagini d’epoca, spesso inediti, fondamentali per la storia locale. Questo ci gratifica enormemente perché attesta la bontà e la qualità del nostro lavoro; come il Gruppo Salingolpe assurga, di fatto, a catalizzatore di un rinato e diffuso interesse culturale.

Per ciò che concerne l’abbattimento della Porta Fiorentina, non possiamo non sottolineare le conseguenze di quella scelta sul patrimonio storico e architettonico di Castellina, una cicatrice indelebile nel tessuto urbanistico dell’antico castrum, ma riteniamo anche giusto contestualizzare quella decisione al momento storico in cui la guerra, la miseria, le privazioni, i lutti subiti e il desiderio di rinnovamento e di modernità, hanno certamente pesato sulle scelte che, se non possono essere condivise, possono essere in qualche modo comprese.

Castellina in Chianti venne liberata dagli alleati esattamente il 17 luglio, come ci racconta un altro castellinese, Giuseppe Stiaccini, membro della sezione ricerche e studi del Gruppo Salingolpe e studioso locale: «Castellina subì ingenti danni dalla ritirata dei tedeschi. Basti pensare – continua Stiaccini – alle decine di civili morti in quei giorni; la popolazione era molto spaventata e raccolta quasi completamente nelle cantine sotto Via delle Volte. Anche le frazioni circostanti come Pietrafitta, Fonterutoli, Lilliano ed il vicino podere de La Leccia, per fare qualche esempio, subirono bombardamenti. È addirittura attestato come vi fosse in un locale di via Trento e Trieste un deposito tedesco di Mercurio!».

Sempre per segnalazione del signor Stiaccini, riportiamo qui una nota del Diario dell’Arcivescovo di Siena, Mons. Mario Toccabelli:

«17 luglio 1944. […] Risalendo dal Duomo, un Signore mi consegna una lettera di Mons. Pievano di Castellina in Chianti, ove mi narra dei tremendi effetti della guerra in quel paese; distrutta la Chiesa prepositurale, la casa canonica, quasi tutte le abitazioni; atterrato l’Asilo dei Vecchi Impotenti e dei bambini, retto dalle Sorelle dei Poveri di S. Caterina. Già vi sono 22 morti e molti feriti. Tra i morti una Sorella dei Poveri; tra i feriti la Superiora e la Maestra d’Asilo dei piccoli. Di queste Suore e di quattro altri feriti urge il trasporto all’Ospedale. Ma la Misericordia di Castellina è rimasta priva di ogni mezzo di trasporto perché tutti requisiti dai tedeschi, anche l’autoambulanza. Da 20 giorni la popolazione di 1.300 abitanti vive nelle cantine. Urge inviare autoambulanza. La nostra Arciconfraternita di Misericordia è disposta a mandare 2 autoambulanze ma occorre il permesso per andare oltre i 5 km. […]Purtroppo però le auto della Misericordia sono andate ma senza potersi avvicinare a Castellina, essendo questa ancora sotto il tiro dei cannoni e non potendo accendere i fari. Con lo stato cattivo delle strade, al buio, con facilità sarebbero finiti in un burrone. […]

18 luglio 1944. Alle 9,30 arriva Mons. Parroco di Castellina che mi racconta le dolorosissime vicende. Come non pochi sono morti dissanguati perché non c’era medico e non vi era modo di fare il trasporto […].

21 luglio 1944. La Sig.ra Mazzei, proprietaria a Fonterutoli, mi prega a far noto al Comandante Provinciale che su di una collina, in quei paraggi, vi sono quindici salme di militari insepolte da vari giorni; e che dalle rovine del campanile viene pure un tanfo orribile, indizio che vi siano sotto dei cadaveri. I contadini non si arrischiano a compiere questa opera di pietà perché il campo è seminato di mine, che essi non sono capaci di rendere innocue e di asportare. Con un biglietto raccomando la cosa al Col. Johnson Commissario della Provincia».

Un’altra significativa testimonianza di quei dolorosissimi giorni, ci viene offerta da un articolo dello storico Maurizio Carnasciali, apparso qualche giorno fa sul periodico semestrale Corrispondenza della Diocesi di Fiesole diretto da Silvano Sassolini, attento e gentilissimo responsabile dell’Archivio Diocesano di Fiesole. Carnasciali riporta una lettera di Don Orazio Borresi, parroco della Chiesa di san Jacopo a Pietrafitta, scritta presumibilmente tra l’autunno del 1944 e l’inverno del 1945. Si riporta in questa sede il contenuto del documento:

«Notizie del periodo bellico riguardanti la chiesa di san Jacopo a Pietrafitta.

I danni e le sofferenze furono notevolissime. Truppe tedesche arrivarono in parrocchia tre mesi avanti il passaggio del fronte. Occuparono i locali della casa canonica, costringendo il parroco e i suoi familiari a ritirarsi in tre piccole stanzette del piano terra. Non ci molestarono e passammo tanti giorni, in mezzo a loro, in una relativa calma. All’avvicinarsi del fronte, i primi Tedeschi arrivati se ne andarono e cominciarono i grandi disastri.
Da queste nuove truppe in arrivo furono bruciate, e quindi completamente distrutte, 40 case coloniche, fra queste una casa colonica della chiesa. La chiesa e la casa canonica furono risparmiate, credo, per un certo rispetto a luogo sacro. Deportarono tutti gli uomini validi che trovarono. Anche il parroco fu preso e condotto al luogo di concentramento, ma nella serata stessa fu rilasciato. Fu mitragliata un’intera famiglia della parrocchia: erano meridionali che impauriti si allontanavano dalla loro casa. Ne rimasero uccisi 7. In ultimo fu presa di mira la località di Pietrafitta e fu cannoneggiata a fuoco incrociato e, così, la chiesa e la canonica furono quasi completamente distrutte. Non ci furono vittime perché le volte della cantina in cui eravamo rifugiati ressero all’urto delle cannonate.
don Orazio Borresi».

 

Vito De Meo